Il sistema della creazione, che ha fatto dell’uomo un essere sociale
e bisognoso di cooperare con gli altri, gli ha fornito le capacità per
potersi procurare il necessario per vivere e far volgere la ruota della propria
vita grazie ai benefici del proprio lavoro.
Riflettendo su ciò che è stato ora detto, si comprende chiaramente
cosa intendiamo con il termine “dignità”. L’uomo deve
sfruttare le forze e le capacità donategli da Dio per raggiungere i propri
scopi, senza elemosinare l’aiuto degli altri. La dignità è
una delle positive e innate qualità morali dell’uomo ed è
una barriera che protegge l’uomo dal condurre un’esistenza spregevole
e da molte illecite azioni e turpi atti.
Chi è privo di dignità e spera sempre di ricevere ciò di
cui necessita dal prossimo, per raggiungere i propri scopi, sarebbe capace di
vendere a vil prezzo la propria volontà e la propria personalità;
per ottenere il piú insignificante dei guadagni sarebbe pronto a far
tutto quello che gli si dice, a dare tutto quello che gli si chiede, persino
la propria naturale libertà e il proprio onore.
La maggior parte dei reati e dei vizi (omicidio, brigantaggio, furto, borseggio,
menzogna, adulazione tradimento della patria, esterofilia eccetera eccetera)
sono le nefaste conseguenze della cupidigia e della mancanza di dignità.
La persona dignitosa non si inchina né si abbassa davanti a nessuna grandezza
se non quella di Dio, né dinanzi a nessuna autorità se non quella
divina; una tale persona difende sempre ciò che riconosce essere giusto
e non calpesta mai la verità per raggiungere i suoi fini. La dignità
è dunque il miglior mezzo per conseguire la rettitudine e conservarla.
Nella sezione relativa ai princípi della fede islamica si è piú
volte detto che il programma generale dell’Islam mira a che l’uomo
non adori che l’Unico Dio e non si inchini che innanzi a Lui. Tutti gli
uomini sono stati creati da Lui e vengono da Lui sostentati; nessuno di essi
primeggia sull’altro se non in base al suo timor di Dio.
Il Musulmano deve aver fiducia in sé stesso e utilizzare l’indipendenza
che Dio gli ha donato. Egli deve impiegare i mezzi che il Signore gli ha dato
e portare avanti la sua vita senza sperare nell’aiuto degli altri, senza
attribuire soci a Dio, senza costruirsi ogni giorno un nuovo idolo da adorare.
Ad esempio, il lavoratore dipendente deve sapere che mangia il suo pane non
quello del suo datore di lavoro; egli deve comprendere che lo stipendio che
prende è il frutto delle sue fatiche, non un’elargizione del proprio
datore di lavoro. Allo stesso modo, l’impiegato statale deve credere che
quel che ogni mese riceve è il suo stipendio, non un omaggio del capo
dell’ufficio in cui lavora, non un regalo del governo o della società.
Insomma, l’uomo libero non deve riporre speranza se non in Dio e deve
inchinarsi soltanto innanzi a Lui, altrimenti avrà, dentro di sé,
la stessa bassezza e la medesima abiezione politeista che manifestano gli idolatri.
Per concludere, è bene sapere che per fiducia in sé si intende
che l’uomo, per conseguire i propri obiettivi, deve utilizzare le proprie
innate capacità senza riporre speranza negli altri, e non che deve tagliare
ogni relazione con il Signore e considerarsi causa prima e autentico artefice
d’ogni speranza e aspirazione umana.
In ogni società esistono persone povere e indigenti che hanno diritto
ad aiuto e assistenza; è dovere della gente benestante aiutare queste
persone e non calpestare questo loro sacrosanto diritto.
La sacra legge islamica raccomanda vivamente il rispetto di questo diritto,
obbligando gli abbienti ad assistere e aiutare i poveri.
Dio l’Eccelso nel Corano si presenta come Benefico, Clemente e Magnanimo
e incoraggia i Suoi servi ad acquisire queste buone qualità: “Dio
è con le persone benefiche” e anche: “Ciò
che voi erogate in beneficenza è a vostro stesso vantaggio”.
In un altro versetto afferma: “Ciò che erogate in beneficenza
ritornerà a voi e nulla perderete”. Lo studio delle condizioni
della società e dei vantaggi offerti dalla beneficenza può essere
d’aiuto a comprendere il significato di tali versetti coranici.
Le diverse forze della società operano a vantaggio di ogni suo individuo;
quindi se in una società un gruppo di persone vive in povertà
e a causa di tale condizione non riesce a lavorare e la produzione della ricchezza
diminuisce in proporzione. Gli indesiderati effetti di tale diminuzione si ripercuotono
allora su tutti gli individui di tale società e a volte succede che i
ricchi falliscano e diventino piú poveri di tutti.
Se però gli abbienti assistessero gli indigenti otterrebbero ottimi risultati,
trai quali:
Esistono innumerevoli versetti e tradizioni islamiche che stimolano e incoraggiano
la gente a fare della beneficenza sulla via di Dio e che espongono il merito
di questo nobile e umano atto.
La questione dell’assistenza verso i poveri ora affrontata è uno
dei numerosi casi particolari del piú generale problema dell’aiuto
reciproco che costituisce il fondamento della società umana. In effetti,
l’essenza della società consiste nella cooperazione dei suoi individui
che con l’aiuto reciproco che si forniscono risolvono i loro problemi
e si assicurano una vita tranquilla.
Per concludere ricordiamo che la sacra religione islamica non ha richiesto la
carità soltanto a livello economico, bensí essa (e del resto anche
la coscienza umana) vuole che si aiuti e si assista tutti i bisognosi, anche
quelli non affetti da necessità pecuniarie. Cosí, istruire un
analfabeta, aiutare un cieco, ricondurre sul retto sentiero un traviato, sollevare
un uomo caduto, sono tutte azioni che significano ed esprimono l’aiuto
reciproco (principio la cui validità fu accettata dagli uomini sin dagli
albori della formazione della società) e la carità. È evidente
che se l’essere umano si rifiuta di svolgere alcuni dei lavori di secondaria
importanza, non accetterà mai di svolgere quelli fondamentali; allo stesso
modo, se non si adempie ai doveri di minore importanza, non si accetterà
ovviamente di eseguire quelli piú importanti.
Il merito della carità è dovuto ai suoi positivi effetti; esso
cresce col crescere della durata di tali effetti e del numero di persone che
traggono vantaggio da essi. Curare un malato è certamente una buona azione,
però costruire e avviare un ospedale in grado di curare centinaia di
malati al giorno, è un’azione la cui bontà non può
nemmeno essere confrontata con quella della prima. Istruire uno studente è
sicuramente un atto meritorio, il cui merito però non potrà mai
eguagliare quello della fondazione di un istituto che ogni anno prepara centinaia
di scienziati.
È per questo che la donazione pubblica[1]
deve essere considerata come la piú elevata forma di carità esistente.
Il sommo Profeta disse: “Due cose onorano l’uomo: avere
un figlio probo e aver fatto donazioni pubbliche”.
Come si evince dal Corano e dalle tradizioni islamiche, fintantoché la
donazione pubblica esiste, Dio l’Altissimo remunera costantemente colui
che l’ha fatta.
Senza alcun dubbio la coscienza umana, considera vita solo quella condotta
con dignità. Una vita priva di dignità, nella quale non venga
presa in considerazione la reale beatitudine dell’essere umano non è
una vita ma una morte assai piú amara e spiacevole di quella naturale.
L’uomo che stima la propria dignità e la propria beatitudine rifugge
da questo vile genere di vita esattamente come dalla morte.
L’uomo, in qualsiasi ambiente viva e qualsiasi sia il metodo di vita che
segue, comprende insitamente che la morte sulla via di ciò che considera
santo e sacro è beatitudine. Nella logica religiosa tale questione è
piú chiara che in qualsiasi altra logica e non ha nulla a che vedere
con le chimere e la superstizione. Infatti, colui che, per ordine della propria
religione, difende la società religiosa in cui vive sino al sacrificio
della sua stessa vita, sa che non si è imposto alcuna privazione, sa
che in cambio dell’effimera vita che ha perso sul sentiero di Dio avrà
una vita eterna, piú piacevole e preziosa di quella di questo mondo.
Egli godrà invero di un’imperitura beatitudine.
Il sacro Corano afferma: “Coloro che vengono uccisi sulla via
di Dio, non sono morti, bensí hanno una vita eterna e godono presso Dio
dei Suoi doni”[2].
I metodi non religiosi, che considerano l’esistenza umana limitata all’effimera
vita di questo mondo, non possono assolutamente affermare che l’uomo dopo
la morte continua a esistere, oppure che ottiene la beatitudine, la felicità
eterna. Essi, sfruttando favole e chimere, possono, al limite, far credere alla
gente che colui che immola la propria vita per la patria o per i sacri princípi
della nazione avrà iscritto il proprio nome in lettere d’oro nelle
pagine di storia, nell’elenco degli eroi e dei martiri della patria e
rimarranno cosí per sempre vivi.
Gli elogi e gli encomi che sono stati rivolti nell’Islam al sacrificio
della vita sul sentiero di Dio, non sono stati rivolti a nessun’altra
buona azione. Il sommo Profeta disse: “Sopra ogni buona azione
ne esiste un’altra, fino ad arrivare al sacrificio della vita sulla via
di Dio; non esiste alcuna buona azione superiore a esso”.
Nei primi anni dell’Islam, i Musulmani chiedevano al sommo Profeta di
implorare per loro il perdono divino e per effetto delle sue preghiere essi
ricevevano il prezioso dono del martirio. Non si piangeva poi coloro che lasciavano
questo mondo sacrificando la propria vita sul sentiero di Dio, poiché
essi venivano considerati vivi.